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Come combattere il cambiamento climatico comodamente seduti a tavola

31 Gennaio 2020 - Alessandro Cattini

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Il clima in cima alla classifica dei rischi globali del WEF

Quest’anno, per la prima dal 2007, l’annuale “Global Risks Report” del World Economic Forum ha attribuito le prime cinque posizioni della classifica delle più probabili minacce che l’umanità dovrà affrontare nel 2020 a fenomeni legati al cambiamento climatico. Inoltre, a quest’ultimo il report associa anche tre dei cinque posti disponibili nell’olimpo dei rischi che, qualora si verificassero, avrebbero il peggiore impatto sulla società globale.

I rischi globali
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Questo monito, che si alza da uno dei più importanti consessi internazionali di studiosi, economisti, imprenditori e politici, non fa che confermare il severo rimprovero di Greta Thunberg e di tutti i giovani che manifestano con lei da più di un anno nelle piazze del mondo. Tuttavia, proprio a causa dell’improvvisa esposizione mediatica cui è stato sottoposto questo tema, la classica domanda: “E io che cosa posso fare per cambiare le cose?” rischia a sua volta di suonare ormai retorica e quasi sdrucita. 

Resta però di capitale importanza e sarebbe un errore accantonarla con sufficienza poiché, come ha suggerito lo scrittore Jonathan Safran Foer (autore di “Possiamo salvare il mondo prima di cena: perchè il clima siamo noi”, Guanda, 2019) in una sua recente intervista rilasciata al Guardian, anche gli individui e le piccole comunità sono dotati di strumenti validissimi per contrastare la crisi climatica, a partire dal modo in cui fanno la lista della spesa. 

 

Emissioni di gas serra: l’alimentazione impatta per il 26%

Quello di Safran Foer è un argomento scientificamente fondato. Il report “Environmental impacts of food production”, pubblicato questo mese da Ourworldindata.org (un’iniziativa dell’Università di Oxford) mostra che la produzione di cibo è responsabile per il 26% delle emissioni globali di gas serra, cioè contribuisce per il 26% alla determinazione dell’impronta ecologica dell’umanità: richiede infatti enormi risorse.

Si deve ricordare che l’impronta ecologica di qualunque cosa può essere espressa in due modi: in kg (o tonnellate) di gas serra che devono essere emessi per produrre una certa quantità di un certo bene; oppure in m2 (o ettari) di terreno da cui è necessario estrarre tutte le risorse che concorrono alla sua produzione. Sia le emissioni di gas serra sia l’uso del suolo sono validi indicatori per misurare, da punti di vista diversi, l’impatto ambientale della nostra dieta.

A questo proposito, il report di Hannah Ritchie e Max Roser mostra che la metà della superficie abitabile della Terra, corrispondente al 35,5% della totalità delle terre emerse, è destinata alla produzione di alimenti. Di quest’ultima, poco più di un quarto è adibita alla coltivazione di prodotti agricoli che finiscono sulla nostre tavola. La restante parte (il 27,3% di tutte le terre emerse) è occupata da pascoli e colture per la produzione di mangimi per gli animali da allevamento.

Uso del suolo
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Dalle bistecche al cioccolato: quanto è sostenibile quello che mangiamo

È evidente che l’allevamento degli animali abbia un enorme impatto sull’uso del suolo, nonostante, come precisato da Ourworldindata.org, prodotti come la carne, il latte e i formaggi soddisfino solo per il 18% il fabbisogno calorico globale. L’83% delle calorie di cui l’umanità necessita, infatti, sono tratte da alimenti di origine vegetale, la cui impronta ecologica è decisamente inferiore. 

Qui di seguito il lettore troverà alcuni esempi dell’impatto ambientale riconducibile ad alcuni cibi spesso presenti nelle nostre dispense. Il primo grafico mostra la correlazione presente tra la superficie di terreno e le emissioni di gas serra necessarie per produrre 1 kg di ciascun alimento presente nella griglia. Le emissioni di gas serra diversi dalla CO2 sono espresse in kg di CO2 equivalente, cioè convertite in una quantità di CO2 dall’analogo impatto ambientale.

È importante sottolineare che siamo stati costretti a togliere proprio i due alimenti più impattanti, perché la loro presenza avrebbe reso illeggibile il resto del grafico. Si tratta del manzo (derivante da allevamenti specificamente adibiti alla produzione di carne) e delle carni ovine come il montone e l’agnello. Produrre 1 kg di manzo richiede infatti 326,21 m2 di terreno ed equivale a emettere 60 kg di gas serra in atmosfera. 1 kg di agnello richiede poi una quantità di terreno ancora maggiore (369,81 m2) e comporta l’emissione di 24 kg di CO2eq.

Impronta ecologica degli alimenti
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In linea di massima, dunque, i prodotti di derivazione animale hanno un maggiore impatto ambientale rispetto a quelli di origine vegetale, con qualche notevole eccezione. Il caffè e il cioccolato fondente richiedono entrambi enormi risorse; la produzione di 1 kg di quest’ultimo, ad esempio, necessita di ben 68,96 m2 di suolo. 1 kg di olio di palma poi, comporta più emissioni di 1 kg di carne di maiale. Quest’ultimo infine, dal canto suo, non essendo un ruminante consuma molte meno risorse di ovini e bovini, ma è comunque più impattante della carne di pollo o del pesce da allevamento, che a loro volta emettono in ogni caso almeno 5 kg di gas serra per ogni kg di prodotto. 

Sempre in obbedienza alla “regola dei ruminanti”, il secondo grafico mostra che dal punto di vista ambientale è “meglio” mangiare 100 proteine di carne di maiale piuttosto che di manzo, agnello o formaggio; ma anche che acquisire questa stessa carica proteica dalla carne di pollo e dalle uova aiuta a risparmiare rispettivamente 1,9 e 3,4 kg di gas serra.

 

Cambiare fornitori non è urgente quanto cambiare dieta

La vera notizia contenuta nel report di Ourworldindata.org, tuttavia, è un’altra. A differenza di quanto si crede, il commercio globale dei prodotti alimentari ha un’incidenza relativamente bassa sulla loro impronta ecologica. Ritchie e Roser specificano ad esempio che il trasporto merci è responsabile per meno dell’1% delle emissioni collegate al processo produttivo delle carni bovine. Se poi consideriamo i cibi per i quali esso è più impattante, come ad esempio l’avocado, il trasporto può essere biasimato al massimo per il 10% delle emissioni legate alla catena di produzione. Tuttavia, sia a livello mondiale che europeo il valore medio dell’impatto dei trasporti sulle emissioni della produzione di cibo si assesta intorno al 6%. 

Al contrario, le emissioni collegate al consumo di carne, latticini, formaggi e uova ammontano in Europa all’83% del totale. Ciò significa che tagliare anche solo di un quattordicesimo i propri consumi di origine animale avrebbe sull’ambiente un impatto mediamente più efficace che approvvigionarsi solo a km0. Basterebbe farlo per mezza giornata, un giorno a settimana. 

Una ricerca svolta nel 2008 da Christopher Weber e Scott Matthews negli Stati Uniti, inoltre, ha mostrato che se la famiglia americana media eliminasse dalla propria dieta la carne rossa e i latticini per un solo giorno a settimana, sostituendoli con pollo e uova, otterrebbe, in termini di riduzione delle emissioni, lo stesso risultato che se acquistasse il 100% dei propri alimenti da produttori locali a km0.

Quante emissioni ci costa la dieta europea
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L’eccezione del trasporto aereo

Il motivo di tutto ciò è che la maggior parte dei cibi viene trasportato utilizzando le navi. Un discorso diverso andrebbe fatto e per i cibi trasportati via aria: le emissioni legate agli aerei sono infatti almeno 50 volte superiori a quelle del trasporto marittimo. Ma è stato calcolato che per ogni tonnellata di cibo che “percorre” la distanza di 1 km, la frazione che viaggia in aereo corrisponde ad appena lo 0,16%. In genere appartengono a questa categoria i cibi freschi e altamente deperibili che provengono da regioni del mondo molto lontane dal Paese in cui li acquistiamo. Fra questi si trovano spesso, affermano Ritchie e Roser, i fagiolini verdi e gli asparagi.

Tutto considerato, dunque, è il tipo di prodotti che scegliamo a fare la più grande differenza nella riduzione delle emissioni collegate al cibo, non il fatto che siano tutti prodotti locali. Ridurre le emissioni relative ai trasporti rappresenta un intervento importante, ma non soddisfacente, né efficace tanto quanto apportare anche qualche aggiustamento alla propria dieta. 

Per riprendere l’esortazione di Jonathan Safran Foer, si tratta di un’azione concreta che è possibile implementare da subito in totale autonomia, al contrario di molte altre che richiedono sinergie complesse tra il cambiamento di abitudini, i grandi investimenti e la lenta riconversione di sistemi pachidermici come quello della produzione di energia. Nell’ottica del raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda2030 dell’ONU tutto è ovviamente fondamentale, ma da qualche parte si dovrà pur incominciare.

 

Crediti immagine: Pixabay

 

Alessandro Cattini

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