
Il 22 aprile è la Giornata mondiale della Terra (Earth Day), ricorrenza istituita nel 1969 dalle Nazioni Unite per evidenziare la necessità di preservare le risorse naturali del pianeta. Negli ultimi anni, il tema ha acquisito sempre più rilevanza, anche grazie al movimento ambientalista di protesta studentesca Fridays for Future e alla presa di posizione di alcuni personaggi celebri, tra cui Leonardo Di Caprio e Bill Gates.
Ma oltre ai combustibili fossili, forse non tutti sanno che anche la nostra dieta ha un peso notevole sull’ambiente. Come avverte l’ONU, infatti, da essa dipende un terzo delle emissioni totali di gas serra, responsabili di modificazioni climatiche dagli effetti potenzialmente catastrofici. L’impatto dell’industria alimentare e dello stile di vita dei paesi del primo mondo sul pianeta è infatti molto maggiore di quanto si potrebbe pensare. Si stima che l’alimentazione sia responsabile del 25% dell’impatto che ciascuno di noi ha sull’ambiente. È stato calcolato che un pasto medio percorre più di 1.900 Km prima di arrivare sulle nostre tavole e che, scegliendo prodotti del proprio territorio, che non necessitano di lunghi trasporti tramite mezzi inquinanti, una famiglia potrebbe risparmiare fino a 1000 chili di anidride carbonica all’anno.
Industria alimentare e inquinamento
Secondo un rapporto FAO (Food and Agricolture Organization of the United States), l’industria zootecnica emette da sola circa 8 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, costituendo ben il 18% delle emissioni di gas serra totali. Nella foresta amazzonica la deforestazione continua a un ritmo sempre crescente per fare spazio a pascoli adibiti a sostenere il bestiame. In 10 anni, la regione ha perso un’area di foresta pari a tre volte la superficie dell’Irlanda.
L’industria alimentare ha un ruolo importante anche nell’utilizzo delle risorse idriche. Con il termine impronta idrica ci si riferisce al volume totale di acqua impiegata per produrre un prodotto, comprendendo ogni diversa fase produttiva. Nel caso della carne di manzo, ad esempio, includerebbe l’acqua impiegata per ottenere le produzioni foraggiere per sfamare i ruminanti, dissetarli, per effettuare le operazioni di pulizia di stalle, eccetera. È stato stimato che un terzo del consumo d’acqua mondiale sia dovuto all’allevamento di bestiame, e quasi un quinto al settore della produzione del latte. L’impronta idrica di un chilogrammo di carne di manzo è di ben 15 400 litri di acqua, ovvero più di tre volte quella necessaria per ottenere lo stesso peso di carne di pollo (4330 litri di acqua), mentre occorrono 5990 litri per un chilo di carne di maiale e 10 400 per un chilo di carne di pecora. In confronto, produrre cibi vegetali richiede una quantità di acqua decisamente più ridotta: per un chilogrammo di riso, occorrono 2500 litri di acqua; per un chilo di mais 1220 litri e per un chilo di patate 290. Questi dati provengono dal sito Water Footprint Network, dove è possibile verificare l’impronta idrica di moltissimi alimenti.
Quindi, se adottassimo una dieta più povera di carne (specialmente rossa) e con più verdure, cereali e legumi potremmo contribuire alla salvaguardia dell’ambiente sotto diversi aspetti, prevenendo fenomeni di deforestazione, l’emissione di gas serra e risparmiando di risorse idriche.
Una dieta sana e sostenibile
La cosa interessante è che, secondo uno studio pubblicato su The Lancet nel 2018, questo tipo di alimentazione, oltre che all’ambiente, è in grado di apportare grandi benefici anche alla nostra salute. Non è un caso che nelle aree del pianeta in cui la longevità è più diffusa, le cosiddette blue zone, le abitudini alimentari siano caratterizzate da una dieta semi-vegertariana. Queste popolazioni adottano un’alimentazione povera di grassi, zuccheri e cibi industriali e ricca di cibi di origine vegetale come frutta, frutta secca, verdura, legumi e cereali locali e sono solite fare un uso moderato di carne, preferendo quella bianca, il pesce e prodotti caseari. Una dieta che oggi definiremmo come “flextariana” dall’inglese “flexible” (flessibile) e vegetarian” (vegetariana), ovvero una dieta per lo più composta da prodotti vegetali, ma che comprende anche il consumo (limitato) di proteine animali.
Numerosi studi hanno dimostrato che il regime alimentare e lo stile di vita sono i fattori principali per vivere bene e a lungo, e infatti, oltre all’alimentazione, la vita nelle blue zone è caratterizzata da una vivace vita sociale, in cui anche le persone anziane coltivano hobby, trascorrono del tempo insieme a famiglia e amici, si dedicano alla meditazione, alla preghiera e a lunghe passeggiate nella natura e dormono in media più tempo rispetto ai coetanei di altre zone. Le blue zone finora indentificate sono cinque: la Sardegna, l’isola greca di Ikaria, l’isola giapponese di Okinawa, la penisola di Nicoyain in Costarica e Loma Linda, in California.
Diete “salva-vita”
Lo studio condotto da The Lancet ha preso in esame i livelli di nutrienti, i tassi di mortalità per malattie croniche correlate alla dieta e al peso e l’impatto ambientale della dieta per oltre 150 paesi in una serie di scenari alimentari: dieta flexariana, pescetariana (cioè che comprende prodotti vegetali e ittici), vegetariana e vegana. Fra tutti i fattori coinvolti, è emerso che un tipo di alimentazione per lo più vegetariana può promuovere la longevità e diminuire l’incidenza delle malattie legate all’invecchiamento. I risultati dello studio indicano che una dieta bilanciata che includa vitamina B2, calcio e vitamina B12, può ridurre la mortalità legata a malattie croniche del 19% per la dieta flexitariana e fino al 22% per la dieta vegana.
Le diete a consumo preponderante di alimenti vegetali si configurano infatti come fattori protettivi rispetto a variabili come la pressione arteriosa, i livelli di colesterolo, la resistenza insulinica, la risposta infiammatoria ed il controllo del peso corporeo. Questo perché frutta, verdura, cereali e legumi, sono ricchissimi di vitamine, minerali, fibre e polifenoli, composti bioattivi a spiccata attività antiossidante, antiaterosclerotica, antinfiammatoria, antitumorale e immunomodulatoria. Questi contribuiscono a potenziare le difese del nostro organismo e a mantenere l’omeostasi fisiologica, riducendo il rischio di sviluppare patologie e contribuendo a mantenere una situazione di normopeso.
Dallo studio emerge inoltre come queste diete a basso contenuto di carne, oltre ad essere salutari, siano efficaci nel ridurre le emissioni di gas serra, le aree di terreni coltivati e l’impiego di azoto e fosforo (elementi che hanno un ruolo nel processo di autodepurazione delle acque).
Un’altro studio pubblicato da Nature Scientific Reports nel 2017 e condotto proprio sulla popolazione italiana ha riconfermato questi dati. Una dieta per lo più a base vegetale ispirata alla cucina mediterranea può sia portare benefici ambientali che essere bilanciata dal punto di vista nutrizionale.
Un recentissimo libro edito da La nave di Teseo, Il cibo che ci salverà di Eliana Liotta, si occupa di questi temi attraverso una trattazione di tipo scientifico che unisce l’ecologia alla scienza della nutrizione. L’autrice propone cinque diverse diete, sia onnivore che vegetariane, capaci di apportare al contempo benefici all’ambiente, alla nostra linea e alla nostra salute. Infatti, non esiste una singola dieta che vinca nettamente su tutte le altre. Per essere più sostenibili ed in forma occorre certamente ridurre la quantità di carne a cui molti di noi sono abituati, scegliendo l’approccio che più ci è affine cosicché esso possa essere mantenuto nel tempo.
Crediti immagine: Dan Gold on Unsplash