La corsa ai risultati e finanziamenti può ancora chiamarsi “scienza”?

L’estenuante competizione tra gli scienziati odierni a suon di pubblicazioni, divenuta una vera e propria cultura che prende il nome di “publish or perish”, porta sempre più spesso a chiedersi se essa abbia distorto la natura stessa della scienza e il suo significato. Gli effetti negativi sulla salute e sul progresso scientifico sono inesorabilmente in aumento, ma le analisi critiche da parte degli addetti ai lavori si fermano sempre a metà, senza analizzarne le vere cause. Vi è speranza per un futuro davvero raggiante e splendido per la scienza e la sua società, ma bisogna prima avere il coraggio di riconoscere i problemi e le contraddizioni attuali.
La scienza e i suoi “big data”
Sono oltre 58 milioni le pubblicazioni scientifiche realizzate dal 1900 a oggi. Questi i numeri colossali della letteratura scientifica. I dati sono derivati dalla piattaforma di indicizzazione Web of Science e, per dare un’idea della mole d’informazione, se dovessimo stampare solo la prima pagina di ognuno di questi articoli, la colonna di carta raggiungerebbe quasi la vetta del monte Kilimanjaro a circa 6000 metri d’altezza.
Però, per gli addetti ai lavori, il dato che davvero richiama all’attenzione è l’enorme quantità di pubblicazioni peer-reviewed che non arrivano neanche alla prima citazione: 25 milioni sui 48 milioni totali. Questo stupisce perché, in ambito accademico, il numero di citazioni è uno dei parametri bibliometrici più utilizzati per valutare rapidamente l’importanza e la rilevanza di una determinata scoperta o invenzione, insieme al nome (o meglio, l’impact-factor) del journal in cui l’articolo è stato pubblicato. Per fare un esempio: la scoperta della struttura del DNA è stata citata 7379 volte, a significare che questo articolo è stato uno dei punti di riferimento per più di settemila lavori successivi. Dunque, se 25 milioni di lavori non sono mai stati citati e altri 18 milioni sono citati al massimo nove volte, il risultato è che uno scioccante 76% della letteratura scientifica ha una rilevanza e un valore pari a zero – o quasi. Di contro, bastano solo 10 citazioni per entrare nel 25% dei lavori più citati di tutti i tempi!
Di conseguenza, considerata la fondamentale importanza di scienza e tecnologia nella vita di tutti i giorni, questi dati potrebbero apparire paradossali: non ci saremmo mai aspettati di constatare che i 3/4 della produzione scientifica abbia una dubbia, se non nulla, “utilità”. La domanda sorge allora spontanea: perché si produce così tanto se i lavori che fanno fare passi in avanti alla scienza sono così pochi? Considerando che gran parte della ricerca scientifica è finanziata con fondi pubblici, non sarebbe meglio destinare una parte di questi finanziamenti ad altre categorie?
Lo scienziato risponderebbe, a ragione, che questo è quello che significa fare scienza. Non si può pretendere di conoscere a priori quali saranno i risultati e, tantomeno, quale sarà il loro preciso impatto: la ricerca scientifica perderebbe di significato se conoscessimo già le risposte. Certo, ci si può “fare un’idea” su quale linea o area di ricerca potrebbe portare a risultati importanti, ma queste tesi e ipotesi devono poi sempre essere sottoposte al vaglio della realtà e – quindi – del metodo scientifico. Come se non bastasse, molte scoperte importantissime – come quella che è valsa il premio Nobel 2020 per la chimica – sono avvenute in maniera totalmente “fortuita”, in un fenomeno che prende il nome di serendipity; molti di questi risultati non erano soltanto inattesi, ma semplicemente inimmaginabili: prima della scoperta, avrebbero potuto far tranquillamente parte di film di fantascienza. Allora, un po’ come l’evoluzione, il progresso scientifico procede per errori e “fortuna”: è statisticamente molto più probabile ottenere dei risultati negativi (o “poco rilevanti”) che positivi, cioè quelli che permettono alla conoscenza di fare piccoli o grandi passi in avanti. La via giusta è una sola, mentre quelle infruttuose sono innumerevoli!
Per questo, fare scienza significa, innanzitutto, voler conoscere e spiegare i fenomeni della natura, indipendentemente dal fatto che abbiano ripercussioni “utili” sulla società, indipendentemente dai risultati possibilmente raggiungibili. Significa dare espressione a quella intrinseca natura esploratrice, investigatrice e curiosa dell’essere umano, che cerca di rispondere alla semplice domanda “come?” – così come arte, letteratura ecc. sono necessarie per esprimere e capire le altre mille altre sfaccettature della natura umana. La via lunga è la più breve, perché è l’unica possibile.
La ricerca scientifica, oggi
Fin qui, lo scienziato risponde benissimo, ma nel farlo tralascia alcuni aspetti prettamente “reali”. Scambia infatti quella che è la ricerca scientifica, l’attività conoscitiva fine a sé stessa (almeno nella sua forma iniziale), con quella che è invece la ricerca scientifica oggi, in questo periodo storico – che non è esattamente la stessa situazione in cui si trovavano Galileo e Darwin, o altri celebri scienziati anche del secolo scorso, la cui attività scientifica viene ingannevolmente presa come un esempio “sempre attuale”, come se l’attività fosse sempre uguale e immutabile col passare degli anni e dei secoli.
La realtà dei fatti, su cui bisognerebbe riflettere, è che la ricerca scientifica oggi è il mezzo attraverso il quale produrre la maggior quantità possibile di risultati bibliograficamente rilevanti.
Ovvero, la ricerca scientifica si trasforma e diventa volta a (1) l’ottenimento della maggior quantità possibile di risultati, per una costante e frequente pubblicazione di articoli scientifici e (2) all’ottenimento di risultati che siano “utili”, cioè il quanto più possibile d’impatto – in modo da poter arrivare ai journal più prestigiosi o ad alti numeri di citazioni. Per questo, essi devono anche avere ben determinate caratteristiche come, tra queste, il non essere risultati “negativi”.
Di conseguenza, il fine di un ricercatore odierno non è la scoperta incondizionata (o qualunque altro prodotto dell’attività scientifica), ma anch’esso si trasforma in mezzo, per il raggiungimento di un fine “ulteriore”, esterno ed estraneo all’attività prettamente scientifica: la rilevanza bibliografica. Tutto ciò, apre una profonda contraddizione tra la definizione che lo stesso scienziato ci aveva dato dell’attività scientifica e quella che poi è la realtà, in cui viene snaturata.
Oltretutto i risultati, con questa trasformazione, diventano “malleabili”, veri e propri oggetti da poter eventualmente “calibrare”: non rappresentando più il punto di arrivo della ricerca – la conoscenza – diventano solo un “qualcosa” per il raggiungimento degli obiettivi sopra elaborati. Non più intoccabili, i prodotti dell’attività scientifica possono essere sottoposti a un intensa analisi di previsione (prima) e a possibili “ritocchi” (poi), nel caso si discostino troppo dal risultato previsto e desiderato. Questi casi, al limite della legalità o propriamente fraudolenti, sono esempi classici, ma la distorsione tutta moderna della scienza porta a anche a un fenomeno legalissimo di “bad science“. I ricercatori, focalizzati al solo raggiungimento di risultati il più possibile importanti, scivolano in una pessima costruzione dei disegni sperimentali o in errate analisi dei dati, portando così alla pubblicazione di falsi-positivi, che spesso si rivelano “false-scoperte importanti”. Dunque, i risultati diventano malleabili anche inconsciamente, perché le attenzioni e le preoccupazioni, che si dovrebbero volgere alla sola attività di ricerca, sono volte a tutt’altro. La qualità dell’attività scientifica precipita e così, oltre ai risultati mal interpretati, possono essere pubblicati anche interi studi che si rivelano poi impossibili da replicare. Si generano così quelle che vengono definite “crisi di replicabilità” (minando il fondamento stesso del metodo scientifico) come quella denunciata, nel 2012, in ambito biomedico.
Allora sorge spontanea un’ulteriore domanda: perché si è determinata questa corsa alle pubblicazioni e alle citazioni, alla rilevanza bibliografica?
Verosimilmente, ciò deriva dal fatto che gli indicatori bibliometrici non vengono utilizzati soltanto per valutare l’impatto delle singole pubblicazioni scientifiche, quindi il solo impatto di determinate scoperte, ma sono utilizzati anche per quantificare il valore dei singoli ricercatori. Questi indicatori includono solitamente il numero di pubblicazioni, il numero di citazioni e il cosidetto “h-index”, che relaziona tra loro il numero di pubblicazioni e citazioni.
Risultati che dunque si “animano” e diventano molto di più di quello che lo scienziato ci aveva descritto: diventano il suo biglietto da visita. Più il suo numero di pubblicazioni e citazioni è elevato, più si è più competitivi per l’ottenimento di finanziamenti, ecc. contro i colleghi scienziati che nel mentre – ed è qui che si dovrebbe di nuovo riflettere sul significato di fare scienza – si sono trasformati nei rivali più spietati. Questo è poi particolarmente vero in Italia dove, a seguito della legge Gelmini del 2010, è necessario il passaggio di determinate soglie bibliometriche per ottenere l’abilitazione scientifica nazionale alla docenza universitaria. Insomma, numero di pubblicazioni e citazioni fanno il valore di un ricercatore e principale – se non unico – fattore per l’ottenimento/mantenimento del proprio posto di lavoro e per l’avanzamento nella carriera accademica.
Scoperte scientifiche come valori di scambio
Si entra allora in una seconda contraddizione: se i risultati sono ignoti a priori e imprevedibili – così dunque il loro numero e le citazioni – come può il valore del singolo ricercatore essere basato su di essi? L’impatto di una pubblicazione è certamente quantificabile, ma gli articoli scientifici sono già lavori di qualità, di valore, indipendentemente dall’impatto. La qualità è determinata dal disegno sperimentale (la “strategia”), dall’ analisi corretta dei dati e quindi dalla “congruenza” tra causa e effetto, dalla pubblicazione completa dei risultati (e non solo quelli “di comodo” che confermano le ipotesi iniziali e contribuiscono alla “bad science”) e da molti altri fattori.
Di conseguenza, la qualità di un lavoro scientifico in via di pubblicazione è già valutato – sommariamente e con tutti i suoi difetti – dal peer-reviewer, che cerca, di fatto, di uniformare tutti i lavori a una certa soglia elevata di qualità, a uno standard “qualitativo”. Perché allora aggiungere un criterio ulteriore di valutazione sulla base di un aspetto del prodotto scientifico che è (forse l’unico) soggetto alla casualità, alla imprevedibilità, per sua stessa definizione?
Ciò porta intrinsecamente a una distorsione in cui solo i lavori che presentano risultati “importanti” sono di qualità (cioè hanno valore) e, con questi, a una distorsione in cui il ricercatore stesso è “di valore” solo se ha ottenuto risultati importanti.
Non ci si stupisce, dunque, che il primo effetto determinato da questa “compravendita della scienza” (scoperte importanti in cambio di finanziamenti e prestigio; finanziamenti e prestigio in cambio di scoperte importanti) è quella già accennata trasformazione e distorsione dell’attività di ricerca. Ciò avviene non solo in termini “teorici”, ma anche in termini pratici, reali: come l’attività è percepita e sentita dal ricercatore stesso. Non si vede più nel lavoro il vero fine della stesso, ma bensì un fine che è estraneo e “imposto” – e che potremmo azzardarci a definire anche “di mercato”.
Così facendo, si riduce l’utilità e il valore dello scienziato – e questo può essere spesso generalizzato a molte altre categorie di lavoratori – a un puro insieme di numeri, tenendo fuori dalle analisi tutte le ore di buon lavoro, studio, formazione, sacrifici ecc. – ovvero, tutti gli aspetti qualitativi che invece sarebbero tenuti in conto in una valutazione “basata sulla qualità”: qui un certo standard qualitativo (una certa “valutazione”) non sarebbe raggiungibile senza avere queste competenze, conoscenze e abilità fondamentali. D’altra parte, si terrebbe comunque conto dell’importanza e dell’influenza di una scoperta o di un ricercatore: se i risultati ottenuti si rivelano fondamentali, è giusto che gli scopritori ricevano il giusto premio, prestigio, ecc.
In poche parole, è la qualità che dipende dalle capacità e conoscenze dell’individuo, non i risultati. Ed è questa che andrebbe, prima di tutto e logicamente, incentivata e premiata.
Un secondo effetto di questa prassi è, come già accennato, l’instaurazione di una estenuante competizione tra colleghi scienziati che non dovrebbe avere niente a che fare con il mondo della scienza: qui, diversamente dal mondo economico, dovrebbe regnare incontrastata la parola “cooperazione”. A tal riguardo, fa già ben sperare l’esistenza di molte realtà di questo tipo nel campo della fisica: basti pensare per esempio al progetto internazionale del CERN o alla vasta cooperazione internazionale che ha portato a confermare sperimentalmente l’esistenza delle onde gravitazionali. Anche il “Progetto genoma umano” è stato uno splendido esempio di cooperazione internazionale, le cui ricadute positive sulla società sono state, ovviamente, molto più immediate.
I pericoli reali per la salute dei ricercatori e per il progresso scientifico
Giunti a questo punto, i più cinici e “pratici” potrebbero obiettare che, certo, la scienza reale presenta molte contraddizioni, ma che in fin dei conti queste non sembrano provocare pesanti conseguenze reali agli addetti ai lavori. Infatti, si potrebbe anche concordare che una buona dose di competizione è auspicabile, perché non fa altro che incentivare al lavoro e al miglioramento.
In questo ragionamento però, probabilmente si confonde qual è l’aspetto “ideale” e quale invece l’aspetto “reale”. Difatti, nella realtà, le conseguenze ci sono, si vedono e sono spesso molto pesanti per la vita e la salute degli addetti ai lavori (e non).
Prima di tutto, si assiste a un rallentamento del progresso scientifico e della sua “traslazione” nella società, a causa dal calo inesorabile della qualità della ricerca che è caratteristica stessa del sistema accademico. Inoltre, le preoccupazioni nella mente dei ricercatori saranno rivolte primariamente ai risultati, all’ottenimento di una “perfect story” che sia quanto più appetibile dai “compratori”, cioè da journal e finanziatori. Contemporaneamente, se i finanziamenti pubblici continueranno a diminuire come negli ultimi anni, la competizione tra quelli che dovrebbero essere nient’altro che colleghi-collaboratori, diventerà ancora più feroce. Paradossalmente, la corsa ai risultati-utili può determinare anche lo “spreco” di una certa percentuale di fondi pubblici e , allo stesso tempo, il rallentamento della scienza e la sua conversione in tecnologie utili per la società – come nella ricerca sul cancro, verosimilmente rallentata da studi pre-clinici di misera qualità.
Inoltre, in tutto questo, si assiste al deterioramento della salute mentale e all’insorgenza di disturbi psichici negli addetti ai lavori. La ricerca competitiva determina protratti stati di ansia, stress, insonnia e perdita di autostima. Solo considerando gli studenti di dottorato, che sono la classe normalmente più giovane e vulnerabile, c’è una propensione sei volte maggiore a sviluppare stati patologici depressivi o disturbi d’ansia, rispetto al resto della popolazione con lo stesso livello d’istruzione impiegata in settori differenti (p.es. quello privato).
Ricordiamoci, inoltre, che tutti questi disturbi non cessano nel momento che si esce dal laboratorio. Il lavoro influenza la nostra vita e coscienza anche al di fuori di esso.
Questi sono disturbi che accompagnano la persona in tutte le ventiquattro ore giornaliere, influenzando negativamente non solo l’esperienza lavorativa quotidiana – dunque invece che migliorare, la competizione non fa altro che peggiorare ancora di più la qualità della ricerca – ma anche la vita sociale, affettiva, familiare, sportiva, artistica ecc. al di fuori del laboratorio.
Anzi, molto spesso si rinuncia direttamente ad alcuni di questi aspetti della “vita esterna” a causa di questi fattori (che privano di energia e motivazione) o a causa del numero elevato di ore lavorative. Di conseguenza, vengono meno anche quelli elementi che potrebbero alleviare la situazione patologica andando, di fatto, a creare un “circuito a feedback positivo” di malessere che rinforza se stesso.
Anni di studio, lavoro e sacrifici non ricompensano quindi né economicamente (quella accademica è una carriera caratterizzata dal precariato) né psicologicamente: la qualità nel lavoro è condizione non-necessaria (“bad science”) e al tempo stesso non-sufficiente (i risultati contano).
La scienza e i giovani, tra passato e futuro
Sicuramente, il processo di “ri-naturalizzazione” della scienza (ovvero il riportare la pratica scientifica alla sua vera espressione) non appare una impresa facile. Il problema è di difficile soluzione. Tuttavia, è altrettanto vero che il primo passo per risolvere i problemi è la consapevolezza del problema stesso e la sua conoscenza approfondita e completa. Purtroppo, questa consapevolezza e spirito critico sembra mancare non solo ai personaggi del mondo accademico “classico”, ma anche ai giovani che per la prima volta si affacciano al mondo scientifico. Le analisi di molti scienziati (e non) sulle difficoltà del mondo accademico e scientifico sembrano sempre fermarsi a metà strada, ai sintomi. Come la cultura del “publish or perish”. Indubbiamente, questo è un problema. Ciononostante, lo è nello stesso modo in cui è un problema il dolore causato da un dente malato. Si possono prendere gli antidolorifici per combatterlo, cambiare marca quando la prima non funziona più o aumentare le dosi. Ciononostante, rimandare l’operazione non farà altro che aggravare la situazione, rendendo il dolore sempre più forte e persistente. Per curare, bisogna agire sulle cause.
La scienza oggi si apre a un numero sempre più elevato di persone e la comunicazione tra scienziati e società, cioè tra scienza e democrazia e sta lentamente divenendo una realtà imprescindibile e inevitabile, come ci ha perfettamente mostrato la pandemia. Una reciproca influenza così forte e crescente da sancire, per i sociologhi della scienza, l’inizio dell’era “post-accademica”. Un primo effetto (che può rappresentare allo stesso tempo la causa di questa inevitabile interdipendenza) è l’accesso finalmente democratico alla ricerca: chiunque, nei paesi più fortunati del mondo, può oggi formarsi in una università e accedere alla ricerca. Una situazione che, solo nel secolo scorso, era inimmaginabile, lontanissima, per pochi. Eppure, questa nuova realtà di cooperazione tra società e scienza, si sta sviluppando sopra di una struttura economica di finanziamenti e sopra di una “concezione” di fare scienza che appartiene al passato, generando inevitabilmente le contraddizioni di cui sopra. Queste fondamenta, così antiche, non sembrano più in grado di sostenere il futuro di questa istituzione sociale, che oggi tende a unire, ad avvicinare: non solo con la società, ma anche la scienza stessa, con cooperazioni scientifiche sempre più vaste e sempre più internazionali. Le grandi scoperte del futuro apparterranno ai molti, alla “società della scienza” e non più al singolo geniale scienziato.
Pertanto, è evidente come questa concezione della scienza, basata sulla competizione e sulla “rilevanza”, si scontri apertamente con quello che appare essere il futuro. Così, il contrasto non avviene solo “ideologicamente”, ma anche materialmente: i giovani (e non solo nel ramo della scienza) sembrano sempre più abbandonati a loro stessi, tra un sistema antico che genera competizione – e quindi precariato – e un futuro che si manifesta silenziosamente – ma che, seppur nascondendosi, indica la strada. Tuttavia, se non si ha il coraggio di immaginarlo e poi di costruirlo, il futuro non può essere nient’altro che una continua ripresentazione e ripetizione passiva del passato. E se è certo che il futuro appartiene alle nuove generazioni, allora sono queste le prime vere responsabili del suo “progredire” più autentico ed originale. Non ci si può più affidare al passato lento e polveroso: è il futuro che genera innovazione ed è l’innovazione che genera il futuro.