
Chi ha fatto domanda per l’Erasmus almeno una volta nella vita, sa che marzo e aprile sono i mesi delle risposte. Dopo la selezione, i test di lingua, i colloqui a volte con file interminabili, le lettere motivazionali scritte un po’ senza avere idea della loro effettiva utilità, la maggior parte degli studenti che ha partecipato al bando di ammissione, riceve finalmente il tanto atteso esito: ed è soltanto l’inizio di un’avventura che ti cambia la vita.
L’evoluzione del Programma Erasmus
Erasmus sta per “European Community Action Scheme for the Mobility of University Students”, e nasce nel 1987 come progetto di scambio tra le più importanti Università europee, dopo quasi vent’anni di “travaglio”. L’idea di un sistema che riconoscesse i periodi di studio trascorsi all’estero era infatti venuta ad una studentessa italiana, Sofia Corradi, che nel 1969 inizia la sua battaglia per il riconoscimento dei soggiorni di studio all’estero. Oggi il progetto si è allargato ed evoluto, e nel 2014 ha cambiato nome in Erasmus+ per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport.
A dicembre 2020 si sono conclusi i negoziati proprio sul nuovo programma Erasmus+ 2021-2027, che si propone anzitutto di aumentare la fetta del bilancio pluriennale europeo, dedicata al programma, dai quasi 15 miliardi di euro allocati durante il periodo 2014/2020 a ben 30 miliardi per i successivi 7 anni, e soprattutto di essere “più flessibile, più digitale e più verde”, in linea con le premesse e gli obiettivi del programma di ripresa NextGenerationEU.
Le statistiche
Dal 1987, circa 580mila studenti italiani hanno potuto beneficiare di almeno una borsa Erasmus, e ben il 39% di loro è partito nel periodo 2014/2020. Quest’ultimo periodo, quando l’Erasmus ha espanso i suoi orizzonti di inclusione, ha visto il miglior trend di crescita dall’anno di nascita del programma, soprattutto per quanto riguarda l’Italia – che è la quarta meta più scelta dagli studenti europei.
L’Erasmus, secondo il rapporto ANVUR riferito al 2018, rappresenta il 76,6% della mobilità internazionale complessiva in Italia. Ciò significa che la maggior parte degli studenti italiani che decide di intraprendere un’esperienza al di fuori dei confini nazionali con uno dei programmi di mobilità disponibili, sceglie di partire con una borsa Erasmus+. Ed è stato così anche per il 2020: nel solo mese di febbraio, secondo l’Agenzia Nazionale Erasmus+ Indire, gli studenti italiani che si trovavano in mobilità erano circa 13mila.
Di questi studenti, il 50% ha scelto di sospendere il loro soggiorno e imbarcarsi nell’ardua impresa di tornare in Italia, un trend in linea con l’andamento generale. Si stima che 6 studenti europei su 10 abbiano deciso di sospendere l’Erasmus quando i casi da Covid-19 sono aumentati esponenzialmente in tutto il continente.
L’impatto del Covid-19
Nei primi mesi del 2020, per molti studenti questa esperienza è giunta a un brusco termine: alcuni hanno deciso di sospendere il soggiorno e di rientrare, pur non avendo la certezza di poter seguire i corsi dell’Università presso il quale si trovavano da casa. Molti di coloro che invece hanno fatto domanda con la Call 2020, di fronte alla prospettiva di ritrovarsi alla Zoom University, hanno deciso infine di rinunciare al posto vinto. La risposta delle Università europee non è stata sinergica: alcune erano pronte già a marzo 2020 ad offrire le lezioni in via telematica, altre hanno avuto bisogno di qualche mese per organizzarsi. Una prima risposta della Commissione Europea è arrivata ad agosto dello scorso anno, sotto forma di un invito a presentare “proposte Erasmus+ per sostenere l’istruzione digitale e le competenze creative” per chi non aveva potuto far fronte alla scadenza per la Call 2020.
Rimane il fatto che ad oggi, moltissimi ragazzi che si sono accontentati di seguire i corsi come surrogato dell’esperienza Erasmus, si ritrovano a vivere un’esperienza a metà.
Le esperienze
“La considero un’esperienza mozzata”, ha raccontato Benedetta, 24 anni, che a settembre 2020 è partita per Birmingham, in Inghilterra. La decisione di partire a settembre, nonostante in quel periodo fossero sorte le prime avvisaglie di un peggioramento della situazione, non è stata rimandata, dice, “perché l’Università inglese, per mesi, ha inviato email in cui assicurava le lezioni in presenza, oltre al fatto che questa sarebbe stata la mia ultima possibilità di fare un Erasmus nel Regno Unito”. Benedetta non è stata la sola ad aver dato fiducia all’Università di arrivo, ma senza l’accordo incombente sulla Brexit – il quale, ricordiamo, è stato raggiunto lo scorso Natale 2020 – alcuni hanno scelto di cambiare semestre per avere la possibilità di svolgere l’Erasmus in presenza, come Tommaso, 24 anni, attualmente in mobilità in Belgio. “L’Università qui ha avuto un approccio molto positivo nei nostri confronti, favorendo la didattica in presenza”, il che, secondo Tommaso, ha invogliato gli studenti a non rinunciare al posto. Dopo gennaio, il governo federale belga aveva deciso per una riapertura graduale, ma già a fine marzo ha dovuto rinunciarvi a fronte dell’aumento dei casi, e per ora anche la didattica in presenza sembra essere stata accantonata.
Molto diversa è stata l’esperienza di Elia, 25 anni, che lo scorso semestre ha deciso di seguire da remoto le lezioni dell’Università di Twente, nei Paesi Bassi, senza trasferirsi. “È il mio primo Erasmus”, specifica, “e dopo tutta la trafila burocratica, complicata dalla situazione Covid e dell’impreparazione dell’Università di gestire le pratiche telematicamente, ho deciso comunque di non rinunciare al posto che avevo vinto”. Molti studenti internazionali che dovevano recarsi nei Paesi Bassi sono stati obbligati a seguire le lezioni da remoto, ma nel caso di Elia non è stato così. “Non sono partito più perché ero prevenuto sia nei confronti del governo olandese, sia nei confronti dell’Università, che per altro”.
E i corsi? “Molto stimolanti, ho imparato moltissimo dalla diversità del metodo di insegnamento olandese, anche come approccio è molto più pratico”, il che ha reso, per Elia, lo scorso semestre “accademicamente fruttuoso”. Benedetta non è proprio dello stesso avviso. “Avevo un corso in presenza e gli altri due online, l’Università inglese non mi ha aiutato molto nelle prime fasi per la selezione dei corsi e ho rischiato di dover tornare a casa subito”, e fa l’esempio di un corso sui manoscritti medievali, “che avrei dovuto toccare con mano, e invece è stato tutto online”. Questo era per lei il secondo Erasmus, e a differenza del primo – “una delle esperienze più belle della mia vita”, ricorda – le è stato utile per affinare la sua capacità di problem solving “e a non dare di matto in generale”, dice ridendo.
Sicuramente, trovarsi quasi bloccati in un altro paese, per quanto l’Unione Europea ci risulti familiare, non è una delle esperienze migliori da ricordare: Shary, 24 anni, ne sa qualcosa. “Ero in Francia quando i primi casi di Covid sono arrivati in Europa, e inizialmente non ero preoccupata, sembrava piuttosto contenuto”; Shary è partita per la Francia a febbraio 2020 per il suo primo Erasmus, a Bordeaux, e ci è rimasta fino alla riapertura dei confini nazionali. “È stato un disastro: moltissimi hanno deciso di andarsene, altri come me sono rimasti perché pensavamo che in Italia sarebbe stato peggio che qui”, e non solo. “Gli studenti americani non sapevano cosa fare, perché i prezzi degli aerei per il ritorno erano arrivati a prezzi esorbitanti, quasi 6000 dollari per un volo solo andata! E lo stesso problema si è presentato a noi italiani, quando è giunto il momento di tornare”. Nonostante i lockdown, la segregazione in casa, e l’impossibilità di viversi l’esperienza, la cosa che Shary ricorda in maniera peggiore è l’organizzazione del ritorno. L’Italia è stata la prima a riaprire i confini ai cittadini europei, il 3 giugno 2020, ma teoricamente il ritorno era permesso a chi si trovava fuori dai confini nazionali anche durante la quarantena più stringente. Peccato che, ad uno studente in mobilità con una borsa da 250€ al mese, alcune compagnie proponessero voli da 700€ con infiniti scali. “Non voglio dare la colpa a qualcuno, perché nessuno si aspettava il Covid, ma è stato troppo stressante. C’è da dire che gli unici che mi hanno aiutato nella scelta del mezzo per il rimpatrio sono stati quelli del Consolato italiano”, i quali hanno invitato Shary a muoversi in treno, ritenendola una scelta più sicura.
Nonostante tutto, i ragazzi si dicono sollevati dall’aiuto offerto dall’Università. A eccezione di Shary, che partiva dall’Università di Modena e Reggio Emilia, tutti gli altri erano e sono iscritti all’Università di Bologna, la prima in Italia per mobilità internazionale in ingresso e in uscita, e si dicono soddisfatti dal supporto offerto dagli Uffici, di cui ha dato testimonianza Benedetta: “Sono stati bravi, li chiamavo al telefono alle ore più disparate e hanno tentato di aiutarmi in tutti i modi, anche mandando solleciti”. L’Unibo non ha dunque abbandonato i suoi studenti, anzi, ha dato a chi arrivava, o doveva arrivare a Bologna anche la possibilità di scegliere come svolgere la mobilità: di 1000 domande, solo in 60 hanno accettato la modalità virtuale – come conferma Alessandra Scagliarini, Prorettrice per le relazioni internazionali dell’Alma Mater.
“Tutte le cose che avrei dovuto fare, e non ho potuto; non poter conoscere gente, niente luoghi di aggregazione, niente viaggi, a parte quelli che son riuscita a fare subito, e sempre la preoccupazione legata alle persone che avevo a casa con il Covid e non prenderlo neanche io”: Benedetta racconta una situazione che ci è familiare ormai da un anno, Erasmus o meno. Eppure, nonostante le esperienze positive di chi ha svolto, o sta svolgendo l’Erasmus online, rimane sempre l’amaro in bocca. Tutto il potenziale di un’esperienza all’estero rimarrà, per questa generazione digitale, in larga parte inespresso. E non solo.
Perché l’Erasmus non è soltanto lo stimolante mondo accademico di una nuova Università e di un altro paese, ma molto di più: è prendere il caffè in riva al mare, al solito posto, tutti i giovedì per il tandem linguistico; è presentarsi da gente sconosciuta perché “c’è una festa Erasmus lì, stasera”, e sentirsi a casa; è fare un viaggio, pensato specificatamente per gli Erasmus, in un luogo che mai avresti pensato di visitare; è vivere con gente che ha uno stile di vita diametralmente opposto al tuo, e rendersi conto che esiste sempre un punto d’incontro; è scoperta di sé stessi tramite la scoperta degli altri.
E fino a quando non potremo tornare ad assembrarci nelle strade, nei bar, nei locali, a vivere le città senza il filtro digitale che i tempi ci impongono, questa generazione Erasmus dovrà tenere duro, e tenere fede all’essenza cardine di questa esperienza: perché l’Erasmus, fondamentalmente, è adattamento.
Crediti immagini: Wendelin Jacober, flickr