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Come si valuta la forza militare di un paese? I numeri e come interpretarli

31 Dicembre 2020 - Eugenio Delcroix

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“Se il più grande esercito del mondo, quello americano, ha solo quattro tipologie di navi da guerra e solo un tipo di carro armato, non ha molto senso che qua in Europa abbiamo 30 differenti tipi di navi da guerra e 16 tipi differenti di carri armati”.

Parole esplicite quelle di Josep Borrell, attuale alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il problema principale, sottolineato da diversi funzionari della UE e centri di studio, è il fatto che il basso livello di spesa militare nella ricerca e sviluppo dei paesi membri stia mettendo l’autonomia strategica dell’Unione a rischio. È notizia di questi giorni che l’Unione Europea stia discutendo (o meglio, continuando a discutere) della strategia di difesa che l’Unione dovrà adottare negli anni a venire, il cui nome prende quello di Strategic Compass, e la cui pubblicazione non è attesa prima di un anno.

Il documento in questione tratterebbe delle politiche di difesa e sicurezza, e dei rischi emergenti su cui gli stati membri si dovrebbero concentrare per garantire una maggiore resilienza, intesa come capacità di reagire a eventi negativi, delle proprie istituzioni militari, in cooperazione con quelle degli altri stati membri. In particolare, lo scopo sarebbe quello di fungere da linea guida da seguire, coordinando lo sforzo dei paesi secondo obiettivi strategici prestabiliti. Tra i principali ambiti di intervento del documento vi sarebbe la necessità di coordinare il settore della difesa a livello europeo; sebbene l’ambito sia di esclusiva competenza delle nazioni, l’Unione Europea ha puntato molto negli ultimi anni a integrare e coordinare gli eserciti degli stati membri.

Grazie anche alla Brexit e all’uscita della Gran Bretagna, storicamente contraria a una maggiore integrazione militare della UE, Parigi e Berlino, assieme a Madrid e Roma, sarebbero favorevoli allo sviluppo di un’industria militare condivisa, mettendo fine alla pluralità di armamenti e mezzi dell’Unione Europea. Sebbene già nel 2016 con l’European Global Strategy la UE si sia impegnata ad indirizzare quelle che sono le maggiori sfide da affrontare in tema di politica estera e di vicinato, questo nuovo documento dovrebbe integrare il precedente, definendo più in dettaglio le politiche militari da attuare per dare un impulso alla cooperazione militare, basandosi su quattro pilastri principali: gestione delle crisi, resilienza, capacità di sviluppo e partnership. Lo sviluppo di una maggiore cooperazione tra i paesi della UE preoccupa non poco la NATO, di cui 21 paesi europei ne fanno parte; tuttavia alti ufficiali hanno fatto sapere che il progetto non minerà la collaborazione con la NATO, ma si indirizzerà verso quelle problematiche che riguardano più da vicino l’Unione Europea, garantendone un maggiore margine di autonomia. Margine che comunque è ancora da chiarire, viste le perplessità di numerosi paesi europei a riguardo; intanto mercoledì 9 dicembre Lorenzo Guerini, Ministro italiano della difesa, assieme al presidente di Leonardo, Luciano Carta, hanno dichiarato la necessità di mantenere un forte legame con la NATO.

Oramai l’anno volge al termine, ed è tempo di resoconti, anche per il settore militare; in quest’articolo andremo ad analizzare i principali attori in ambito militare a livello globale sotto il profilo numerico e le relative implicazioni strategiche. Se analizzassimo la potenza militare dei maggiori eserciti al mondo in termini numerici, cosa potremmo dedurne?

Le dimensioni degli eserciti e la loro efficacia

Agosto 1964. Gli Stati Uniti, dopo aver aumentato il numero di militari in qualità di consiglieri militari nel Vietnam del Sud alleato, si impegnano sempre maggiormente nel conflitto che si delinea con il Vietnam del Nord comunista. I numeri sono indubbiamente dalla parte degli Americani: produzione industriale, quantità e qualità dei mezzi militari, effettivi dell’esercito, superiorità aerea e via dicendo. Tuttavia la storia ci insegna che l’eccessiva sicurezza derivante dalla superiorità numerica e le cattive decisioni strategiche, unite alla sottovalutazione del nemico, hanno portato nel giro di un decennio dall’intervento del presidente americano Lyndon Johnson nel 1963 la bandiera del Vietnam del Nord a sventolare su Saigon, ex capitale del Sud. La super-potenza statunitense, nonostante la sua palese superiorità militare, non riuscì a piegare la resistenza di un esercito che, oltre agli aiuti dall’URSS, faceva largo affidamento su una strategia di guerriglia incentrata sulla risposta asimmetrica. Inoltre, decenni di esperienza contro le forze francesi e le operazioni di guerriglia condotte contro l’esercito giapponese nel secondo conflitto mondiale avevano temprato l’esercito Vietcong del Nord.

Spesso la potenza di uno Stato viene commisurata ad una serie di fattori “oggettivi” che possono essere quantificati e che forniscono una buona prospettiva su quella che si ritiene sia l’effettiva forza del paese. I coefficienti normalmente utilizzati per le valutazioni sono quelli relativi alla popolazione, all’organizzazione politica e sociale, il PIL e la produzione industriale, il livello tecnologico, gli effettivi delle forze armate nei vari ambiti e via dicendo. In quest’articolo ci soffermiamo sugli indici legati alla potenza militare di una nazione. Questi valori misurano la potenza delle nazioni relativamente ai vari settori delle forze armate: forze aeree, di terra, di mare e armamento nucleare. Sono tuttavia queste misure realmente efficaci per misurare la capacità militare di una nazione?

La serie storica di fallimenti degli interventi militari in Afghanistan, sia dell’URSS che della coalizione internazionale di due decenni dopo fanno pensare diversamente.
Non stiamo dicendo che i dati non rispecchino il rapporto di forza tra i vari eserciti, assolutamente; tuttavia i dati, per quanto esplicativi, vanno sempre contestualizzati e interpretati per non giungere a conclusioni erronee.
In uno scenario come quello militare in cui le incertezze giocano un ruolo fondamentale, il numero non basta a fornire spiegazioni esaustive.
Il know-how, le abilità tattiche e strategiche unite ad una visione d’insieme giocano un fattore decisivo nel garantire ad una nazione il successo sul campo, sia esso quello di battaglia o quello diplomatico.

 

I grafici: come interpretarli

I grafici inseriti nell’articolo ci forniscono una generale panoramica sulla potenza militare delle principali potenze mondiali, dell’Alleanza Atlantica (NATO) e dei paesi membri della Unione Europea (UE) relativamente all’anno 2019. I dati sono stati ottenuti incrociando diverse fonti: risorse libere accessibili sul Web, siti di aggregazione di dati come globalfirepower.com, documenti policy-oriented in ambito militare e lavori accademici. Per valutare la potenza degli eserciti utilizzeremo alcuni parametri.

Partendo dal primo (budget di difesa, espresso in milioni di dollari), si indica la spesa complessiva per le forze armate (marina, esercito, aviazione) del soggetto in questione.
C’è da tenere in considerazione che le metodologie di rendicontazione variano da nazione a nazione; per questo ci sentiamo di affermare che i dati non vanno interpretati in termini assoluti (gli stessi paesi che hanno rilasciato le informazioni sono interessati a non fornire dati precisi sullo stato delle loro forze), ma secondo prospettive euristiche. La forza di lavoro indica la manodopera complessiva abile al lavoro. Il personale militare complessivo indica sia le forze attualmente sotto le armi che i riservisti; per alcuni paesi sono incluse anche le forze paramilitari.

Passiamo ora ai mezzi militari: i dati rappresentano tutti i mezzi disponibili per il combattimento, escludendo quindi quelli al solo scopo di addestramento o quelli attualmente inutilizzabili.
I carri armati, termine abbastanza esplicito, si riferiscono ai mezzi cingolati pesanti. I veicoli blindati da combattimento indicano i mezzi blindati leggeri e medi, solitamente più utili in ambienti urbani per scopi di pattugliamento e di contro-guerriglia mentre i carri sono tendenzialmente più efficaci negli scontri in campo aperto. All’interno della categoria non rientrano i veicoli blindati per il trasporto truppe o per attività terze (sminamento, genieri, sanità etc…).

I pezzi di artiglieria riguardano sia l’artiglieria semi-movente sia i pezzi di artiglieria fissa campale. I lanciamissili multipli sono quei mezzi montati su cingolati o ruote e dotati di tubi in grado di sparare contemporaneamente più salve di missili, con una capacità di saturazione di fuoco dell’area maggiore rispetto all’artiglieria convenzionale e con potenziali effetti devastanti.

Passando ai mezzi aerei, i caccia indicano quei veicoli tendenzialmente più piccoli e veloci (e che si suddividono in varie categorie) che hanno il compito primario di intercettare i velivoli (o missili) ed abbatterli; i caccia bombardieri sono quei mezzi aerei che hanno un ruolo nelle operazioni di attacco mirato al suolo (più precise rispetto ai bombardieri pesanti, che tuttavia non sono stati riportati nei grafici). Gli elicotteri d’attacco riguardano quegli elicotteri, solitamente abbastanza corazzati, in grado di condurre operazioni di attacco al suolo; i dati non includono gli elicotteri da trasposto o i più piccoli elicotteri da ricognizione o per altri utilizzi.

Arriviamo infine ai mezzi navali. Le portaerei sono navi di notevoli dimensioni (la classe americana Nimitz arriva fino ai 333 metri di lunghezza) a ponte piatto il cui scopo principale è quello di fungere da pista da decollo e di atterraggio per aerei ed elicotteri, e il cui scopo principale è quello di dispiegare supporto aereo in tempo relativamente breve.
Le cacciatorpediniere, con ruolo anti-sommergibile e anti-aereo, sono navi di dimensioni relativamente contenute, il cui scopo è quello di scortare navi di dimensioni maggiori.
Le fregate, le cui dimensioni sono variabili e i ruoli diversificati in base ai paesi, possono rientrare nella categoria dei più pesanti incrociatori, e possono ospitare missili a corta e media gittata in grado di colpire obbiettivi terrestri ed aerei; alcuni paesi europei fanno coincidere cacciatorpediniere e fregate, per cui non sempre si ha una visione chiara.
I sommergibili hanno un ruolo essenzialmente anti-navale, anche se a questo compito tradizionale è stato affiancato quello di trasportare missili contro obbiettivi terrestri; alcuni sottomarini sono in grado di trasportare testate nucleari (il film Caccia ad Ottobre Rosso, sebbene romanzata, ne è una valida testimonianza). Le corvette hanno dimensioni contenute e sono dotate di armamento leggero, con funzione multiruolo antiaereo e antisommergibile, e affiancano le navi più grandi. Infine i mezzi di pattugliamento presentano dimensioni piccole e sono molto versatili e veloci, e vengono utilizzati essenzialmente in missioni di pattugliamento e ricognizione.

Nel grafico, le armi nucleari riportano il numero attualmente attivo delle testate nucleari per paese, includendo sia quelle trasportabili tramite missili balistici di varia gittata, sia quelle lanciate per via aerea, oramai in diminuzione e per impieghi più tattici. Il grafico riporta sia le testate armate e pronte all’utilizzo, sia quelle stoccate ma operative; non sono riportate invece quelle dismesse.

 

Dati e dottrine militari a confronto

I dati ci possono fornire importanti indicazioni non solo sulla composizione quantitativa di un esercito, ma anche sulla dottrina militare della relativa nazione. Dando una veloce occhiata ai dati si nota come alcuni paesi abbiamo investito maggiormente in alcuni settori rispetto ad altri, posizionandosi strategicamente in vantaggio in quel determinato ambito. Ciò illustra in parte anche la propensione verso una determinata dottrina militare che lo Stato adotta, sia per motivi storici che per motivi operativi, senza comunque un nesso di causalità. Gli Stati Uniti, che occupano il primo posto per potenza militare a livello globale, nei conflitti su larga scala in cui sono stati coinvolti hanno fatto largo affidamento sulla forza aerea come mezzo per lanciare devastanti attacchi contro le forze di terra con lo scopo di annientarle e indebolirne le linee logistiche, le capacità decisionali e di spostamento. La Russia, al secondo posto, ha da sempre basato la propria dottrina su un’elevata potenza di fuoco resa possibile dall’impiego combinato di pezzi di artiglieria assieme ad enormi quantità di mezzi corazzati da impiegare come massa d’urto. Queste strategie trovano riscontro nei dati, in cui i relativi punti di forza costituiscono le voci più consistenti in termini numerici. In generale, le dottrine militari nazionali sono da ritenersi valide in casi di attacchi contro forze convenzionali ma risultano meno efficaci in contesti di guerra asimmetrica, dove un nemico più difficile da individuare che adotta tecniche di guerriglia richiede approcci diversi.

Per quanto riguarda la Cina, i dati che possano fornire un indirizzo per comprendere la sua dottrina militare sono di più difficile comprensione, non solo perché si basano su stime più incerte, ma anche perché la Cina negli ultimi decenni (in particolare dall’invasione statunitense dell’Iraq nel 1991) ha investito molto nella modernizzazione delle proprie forze armate, passando da una strategia basata quasi esclusivamente sulla potenza numerica ad una di modernizzazione delle proprie forze armate, tant’è che l’organico dell’esercito è stato ridotto di ben 300.000 unità negli ultimi anni a vantaggio di nuove tecnologie. La Cina risulta essere la terza potenza militare mondiale, stando al semplice rapporto numerico: ha un esercito di notevoli dimensioni e le sue armate stanno sperimentando una veloce innovazione tecnologica. Tuttavia, alla Cina manca un aspetto fondamentale che Stati Uniti e Russia invece posseggono. Questo fattore è l’esperienza in conflitti su larga scala, come sono stati Iraq e Afghanistan per gli U.S.A, Ossezia e Siria per la Russia; in questi conflitti gli eserciti di queste nazioni hanno avuto l’opportunità di mettere alla prova e di migliorare le proprie dottrine operative, cosa che invece la Cina non ha fatto. Le forze armate di Pechino non si impegnano in una guerra su larga scala dal 1979, quando invasero il Vietnam, e anche loro furono costrette a ritirarsi in poche settimane, anche perché si trattò più di una “spedizione punitiva” che di un tentativo di conquista. Da allora l’esercito cinese è stato impiegato in operazioni di polizia nelle province più insofferenti al dominio cinese (Tibet, Xinjiang, Hong Kong), senza aggiornarsi in complessi teatri di guerra. Questo è un fattore da non sottovalutare nei rapporti di forza, specialmente in un teatro operativo come quello del Mar Cinese Meridionale in perenne attrito tra rivendicazioni locali e interessi globali. Ai fattori qualitativo e quantitativo potrebbero quindi non corrispondere capacità operative altrettanto all’altezza.

Guerra e calcoli errati

La storia dell’umanità è indissolubilmente legata al concetto di guerra; Lawrence Keeley, professore di archeologia presso l’Università dell’Illinois a Chicago, nel 1996 pubblicò il libro La guerra prima della civiltà. Il mito del selvaggio pacifico in cui venivano comparati i rinvenimenti archeologici in diversi siti sparsi nel mondo e risalenti fino a decine di migliaia di anni fa. Dai rinvenimenti il professore stimò che buona parte delle società tribali studiate sperimentavano un livello di violenza molto maggiore rispetto a quello odierno, calcolato dall’elevata percentuale di ferite mortali rinvenute sui resti dei giovani di sesso maschile, il cui tasso di mortalità causato da conflitti violenti era enormemente più alto rispetto a quello sperimentato dagli eserciti del XX secolo.

Al giorno d’oggi, anche grazie a trattati internazionali, la violenza e le guerre non sono lo strumento prediletto per la risoluzione delle dispute inter-statali, e la potenza militare di una nazione (o di un gruppo armato) costituisce uno dei principali mezzi di prevenzione dei conflitti. Questo fatto è noto con il nome di strategia della deterrenza. Emblematico in questo senso sono soprattutto gli armamenti non convenzionali, specialmente le testate nucleari. I devastanti effetti provocati da queste rendono il loro impiego operativo in un contesto bellico estremamente problematico e improbabile, tuttavia non impossibile. Si pensi alla Corea del Nord, e al fatto che, grazie al suo limitato arsenale nucleare (circa 40 pezzi) possa minacciare i paesi limitrofi, assumendo un peso fondamentale nello scacchiere asiatico.

Tuttavia, per uno Stato il fatto di investire nella difesa porta al paradosso della sicurezza: maggiori sono le risorse spese da una nazione nella propria difesa, maggiore sarà il senso di sicurezza.
Tuttavia i paesi vicini, sentendosi vulnerabili, tenderanno ad investire a loro volta nella difesa, generando un effetto domino di insicurezza collettiva, causata anche dalla mancanza di conoscenza delle altrui intenzioni. Ogni paese si trova a essere così dipendente dalla sua percezione, che però non corrisponde necessariamente alla realtà dei fatti, delle forze in campo delle varie nazioni e delle relative intenzioni, provocando un effetto di enorme potenziale deterrente ma che al tempo stesso può trasformarsi in una catena critica di errori di valutazione, così come accadde nel 1914, portando al più grande conflitto militare che l’umanità avesse vissuto fino ad allora.

Foto di Robert Armstrong da Pixabay

Eugenio Delcroix

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