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Missione Africa: l’economia italiana che guarda sotto il Sahara

10 Aprile 2014 - Cristina Da Rold

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residentevil_stars2001 on flickr

Autunno 2014. Nell’agenda italiana del Ministero degli Esteri è fissato un appuntamento importante: la prima conferenza Italia-Africa. Obiettivo, rafforzare le relazioni bilaterali con i paesi subsahariani per rendere più internazionale il nostro paese in vista di Expo 2015, e soprattutto della candidatura dell’Italia per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2017-2018. E pochi giorni fa, a inizio aprile, si è tenuto il quarto Africa-UE summit sui temi della pace, sicurezza e interessi condivisi, con priorità alle politiche che favoriscono una crescita sostenibile ed inclusiva.
Il nostro paese intende infatti rafforzare la sua presenza, oggi poco significativa, nei paesi subsahariani. Secondo un report stilato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale – ISPI per la Farnesina, le ragioni economiche di un crescente interesse del nostro paese verso l’Africa sono due: la possibilità per il continente africano di contribuire con la sua economia in crescita al rilancio anche dell’economia italiana, nonché l’opportunità di proporre l’Italia come partner di paesi fortemente in via di sviluppo, in modo da “indirizzarne i processi di sviluppo e di governance a livello globale […] nell’identificazione e implementazione di strategie di sviluppo sostenibili”.

 

Economie in crescita

I paesi dell’Africa subsahariana rappresentano un agglomerato di situazioni molto diverse fra loro e spesso non è semplice tracciare denominatori comuni, eppure alcuni di essi stanno attraversando oggi una fase di straordinaria espansione economica. Se nel periodo che va dal 1990 al 1999 il tasso di crescita medio annuo di questi paesi si aggirava intorno al 2,1%, nel decennio successivo si è arrivati a toccare il 4,7%. Come sottolineato dagli esperti nel report, l’aumento dei prezzi delle risorse naturali (come gas naturale e petrolio) ha senza dubbio svolto un ruolo importante – sebbene non vada comunque inteso come causa necessaria – nel trainare e sostenere questo tipo di sviluppo. Un esempio significativo è proprio il greggio, il cui prezzo al barile è passato dai 25$ del 1999 ai 90$ del 2012.

Dall’inizio del XXI secolo a oggi l’economia a sud del Sahara è quadruplicata in termini nominali (cioè senza considerare inflazione e potere d’acquisto), passando da 342 miliardi di dollari a 1.306 miliardi. Due paesi su 49 rappresentano – da soli – metà dell’economia subsahariana: il Sudafrica, con un PIL di 384 miliardi di dollari, e la Nigeria con uno di 263 miliardi. Un altro modo di guardare al problema è tramite i dati OECD che classificano i paesi sulla base di una combinazione del livello di reddito pro capite (il potenziale di crescita) e di performance economica (la crescita effettiva). Sebbene la situazione negli ultimi 10 anni sia molto mutata e il numero dei paesi considerati poveri sia passato da 36 del 1999 a 15 nel 2009, l’Africa subsahariana è e rimane un continente “a quattro velocità”, dove continuano a convivere paesi poveri e paesi “convergenti”.

A non essere cambiata di molto negli ultimi 10 anni è invece la composizione del Pil dei paesi subsahariani, dove a farla da padrone è ancora largamente il settore dei servizi, che rappresenta il 50% del totale.

Infine, anche dal punto di vista politico, la situazione dell’Africa subsahariana è tutt’altro che omogenea. Il report in questo senso fa riferimento all’indice FSI (Failed States Index, FSI) del Fund For Peace di Washington che potremmo definire “indice del fallimento statuale”, e che considera sei indicatori socio-economici (pressione demografica, rifugiati, sviluppo ineguale, rivendicazioni di gruppo, esodo di persone e fuga di cervelli, povertà e declino economico) e sei indicatori politici e militari (legittimità dello stato, servizi pubblici, diritti umani e stato di diritto, apparati di sicurezza, élite divise e polarizzate, interventi esterni). Secondo l’indice FSI in Africa si passa da stati relativamente stabili (cioè con FSI inferiore a 80) come il Sudafrica, ad altri falliti, cioè con FSI maggiore di 100, come la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan e la Somalia. Spesso però economia e politica non sembrano andare nella stessa direzione. È il caso della Nigeria, che con i suoi 263 miliardi di dollari rappresenta il secondo PIL della zona subsahariana, ma che dal punto di vista della stabilità politica compare fra i cosiddetti “paesi a rischio”.

 

Scambi commerciali Italia-Africa

L’Africa subsahariana rimane un’area marginale rispetto agli scambi commerciali internazionali: nel 2011 ha origine lì appena il 2,1% del totale delle importazioni ed esportazioni globali. Il nostro paese commercia con gli stati subsahariani per un valore complessivo di 13,6 miliardi di dollari, che rappresenta solo l’1,8% del totale del commercio con l’estero. Ad oggi però importiamo dall’Africa di più di quanto vi esportiamo. Secondo elaborazioni dell’Italian trade agency – ICE su dati ISTAT riportate nel dossier, nel 2012 l’Italia ha importato dal continente africano merci per un valore pari a 8,2 miliardi di euro (il 2,2% delle importazioni totali italiane) contro i 5,4 miliardi di euro di esportazioni (1,4% del totale). Una quantità – sottolineano gli esperti – particolarmente basse se si considera la relativa vicinanza geografica dell’Italia con questa regione.

Dal punto di vista dell’export, la metà dei prodotti che esportiamo in Africa sono macchinari e apparecchi per la produzione, seguiti a distanza dal settore dei mezzi di trasporto e dei prodotti petroliferi raffinati, come il Coke petrolifero, derivato dalla distillazione del petrolio.


 

Investimenti italiani e società partecipate

Anche dal punto di vista degli investimenti e delle imprese sul territorio la presenza italiana pare complessivamente ancora piuttosto limitata. Oggi i paesi in cui operiamo di più sono il Sudafrica, l’Etiopia e il Mozambico, seguiti da Angola e Nigeria. A differenza dell’import-export, però, secondo dati OCSE gli investimenti diretti esteri del nostro paese sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi dieci anni, passando dai 21,2 milioni di dollari del 2000 a ben 638,5 milioni nel 2011, prevalentemente in Sudafrica e Nigeria, oltre che in misura minore nelle Mauritius, noto tra le altre cose per i servizi finanziari off shore, in Angola e infine in Etiopia, già terra della bell’abissina. A registrare maggior crescita oggi sembra dunque essere il settore industriale, prima che quello commerciale.

 

Nel 2011 la maggior parte del fatturato italiano (il 73% del totale) derivava dall’industria estrattiva, seguita a grande distanza da quella manifatturiera. Dal punto di vista del numero di aziende partecipate (cioè quelle in cui l’Italia detiene una quota inferiore al 50%) la situazione sembra diversa: è la manifattura a dominare la scena, insieme al commercio all’ingrosso, mentre le aziende del settore estrattivo sono molte meno. Poche aziende estrattive si dividono dunque un buon fatturato, mentre nel settore manifatturiero sono molte più aziende in proporzione a contendersi il totale.
Puntare sulla qualità: una garanzia di crescita?

La domanda finale di questa panoramica che emerge dal dossier sembra essere la seguente: perché l’Africa dovrebbe scegliere Roma come partner privilegiato? La risposta secondo gli esperti è riassumibile nel concetto di qualità: l’Italia può trovare una propria via attraverso l’offerta di prodotti e servizi di qualità, promuovendo l’autonomia degli stati africani, sostenendoli nei propri percorsi di sviluppo.

“Già nel sistema bipolare della Guerra fredda, il governo italiano, interpretando vocazioni terzomondiste che accomunavano forze politiche e imprese a grande proiezione internazionale, seppe ritagliarsi un proprio spazio pur all’interno dello schieramento di riferimento. L’Eni è stata un protagonista assoluto in questo campo, anticipando o trascinando la politica estera dell’intero paese.”

Picture credits: residentevil_stars2001 on flickr

Cristina Da Rold

Freelance data-journalist and scientific communicator

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