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Se i rifiuti sono high-tech

30 Giugno 2015 - Giulia Annovi

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È il rifiuto del futuro. L’innovazione tecnologica procede a larghi passi e gli apparecchi elettronici sono sempre più alla portata di tutti. D’altro canto la durata media di vita di batterie, cellulari e elettrodomestici è in costante riduzione.

Lo dice la parola inglese coniata apposta per identificarli, e-waste, e lo confermano anche i numeri. La United Nation University ha stimato nel suo rapporto “E-Waste monitor 2014” che la quantità di rifiuti prodotta a livello mondiale nel 2014 sia stata pari a 41,8 milioni di tonnellate metriche (Mt). Ma quello che salta all’occhio è che il volume è destinato ad aumentare: nell’arco di quattro anni si prevede un tasso di crescita del 20%.

Se volessimo stilare la classifica dei più spreconi nell’ambito degli elettrodomestici, al primo posto sembrerebbe esserci l’Asia, il continente con maggiore produzione di rifiuti elettrici ed elettronici (16 Mt). Basta però considerare il numero degli abitanti per ribaltare il quadro: è l’Occidente il più sprecone. Un cittadino asiatico consuma molto meno (3.7 Kg/abitante) di un americano (12,2 Kg/abitante) o di un europeo (15.6 Kg/abitante).

Il rifiuto, in genere, è qualcosa di cui tutti si vogliono disfare in fretta. Nel caso degli e-waste invece l’Occidente ha tra le mani una ricchezza. Considerando infatti il volume complessivo dei rifiuti elettronici globali, il loro valore ammonta a 48 miliardi di euro. Nei nostri pc, smartphone, frigoriferi, lavatrici si nascondono almeno 60 elementi della Tavola Periodica. Ferro, mercurio, arsenico, cromo, cadmio, plastiche non costituiscono solo un problema per l’ambiente, ma sono anche una sorgente di materie prime preziose. Se il rifiuto viene trattato come una risorsa, porta enormi benefici dal punto di vista economico: il rifiuto restituisce materie prime, genera lavoro e favorisce la competitività. “Ma un impianto non adeguato restituisce performance ambientali ed economiche basse” ha spiegato Davide Donadio, consulente nel settore dei Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE). L’obiettivo a cui bisogna tendere è infatti il recupero del 95% delle materie che compongono un elettrodomestico. “Tale obiettivo è assicurato dagli impianti più moderni, che però sono anche quelli che richiedono investimenti più corposi”. Data questa enorme ricchezza, a che punto siamo oggi nella corretta gestione dei rifiuti elettronici? Solo il 15% degli e-waste totali prodotti nel 2014 a livello globale è riciclato correttamente, con alcuni paesi che sono fiore all’occhiello in questa attività. Svezia, Danimarca e Bulgaria già riciclano più del 60% del materiale elettronico.

E-waste, in versione europea
Il rifiuto crea un’economia circolare che permette alla società di ottenere materiale in un ambito di scarsità di risorse. E sembra che l’Europa tutto questo l’abbia capito. Secondo il rapporto SOER 2015, negli ultimi vent’anni l’Europa ha fatto tanti progressi sia nella prevenzione della produzione di rifiuti, sia nella capacità di riciclo: i rifiuti urbani in generale hanno subito un calo del 4% pro-capite nel Vecchio Continente. La capacità di produrre meno rifiuti è legata al fatto che è aumentata l’attenzione verso il riciclo: se nel 2004 erano il 22% i rifiuti riciclati, nel 2012 la percentuale si è innalzata fino al 29% come media Europea. Ma l’Europa ha un potenziale ancora tutto da liberare. Osservando la quantità di oggetti immessi sul mercato e quelli avviati al riciclo, si possono notare ancora ampi margini di miglioramento.

Forse proprio questo potenziale è stata una delle forze che ha favorito la stesura della direttiva 2012/19/EU, secondo cui entro il 2020 dovremo raccogliere 12.3 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. L’obiettivo verrà raggiunto per step: dall’anno prossimo dovremo iniziare a raccogliere il 45% della media dei materiali immessi sul mercato nei tre anni precedenti. Poi ci sarà tempo fino al 2019 affinché la percentuale salga al 65%.

Per raggiungere gli standard europei, occorre capire quali vie prendono i rifiuti elettronici, quando non seguono quella ufficiale. In Europa, circa 1-2 kg per abitante sono ancora gettati tra i rifiuti domestici, cioè circa 0,7 milioni di tonnellate per anno. È facile disfarsi di piccoli oggetti, come cellulari o spazzolini elettrici, usufruendo del comune cassonetto. Altre volte gli oggetti non ingombranti che scartiamo rimangono addirittura in giacenza nelle nostre case. Quanti di noi conservano il vecchio cellulare nel cassetto perché al bisogno potrebbe essere rivalutato il suo utilizzo?
In altre situazioni, i nostri dispositivi possono diventare oggetto di un commercio porta a porta, gestito da raccoglitori non ufficiali, che in un certo senso ci fanno guadagnare mentre ci disfiamo del nostro vecchio elettrodomestico.

Secondo il rapporto “Equivalent conditions for waste electrical and electronic equipment (WEEE) recycling operations taking place outside the European Union (2013)” oggi solo un terzo dei prodotti elettronici è gestito in Europa. A volte i rifiuti devono essere portati da un paese europeo all’altro, perché non tutti i paesi della comunità hanno impianti a norma per trattare rifiuti così particolari. E a volte proprio in questo scambio se ne perdono un po’ per la strada: la contabilità non torna a causa di codici o classificazioni differenti da uno stato all’altro.
Oltre a questi però, il 15% degli e-waste però viene mandato all’estero per una via semi-legale, cioè etichettando un rifiuto come un oggetto adatto al riuso. Che sia così per davvero non è certo. I rifiuti Europei infatti possono varcare i confini solo nel caso in cui sia possibile provare la conformità del trattamento per il recupero dei materiali. L’Europa cerca così di assicurare il rispetto della salute delle persone e dell’ambiente. Ecco che allora per andare all’estero con gli oggetti elettronici caduti in disuso, occorre seguire altre vie.

Il commercio illegale
Come si evolve la tecnologia, così si evolve anche il crimine. Anche i rifiuti elettronici diventano quindi oggetti su cui lucrare attraverso un commercio che segue vie illegali. Il viaggio degli e-waste può essere corto o lungo, perché talvolta il commercio avviene tra paesi ricchi, altre volte invece il materiale è inviato verso paesi in via di sviluppo. Sta di fatto che nel paese dove arrivano, spesso gli e-waste non vengono trattati con il dovuto rispetto, soprattutto per l’ambiente. Se in Europa il 40% degli e-waste finisce tra le mani di gestori ufficiali che ne assicurano il corretto trattamento, non è detto che sia così negli altri paesi. Stati Uniti e Canada riciclano solo il 12 % degli e-waste; tra Giappone e Cina viene raggiunto circa il 30%, mentre l’Australia tratta solo l’1% dei rifiuti elettronici. Asia e Africa Occidentale sono i più famosi tra i luoghi verso cui si verifica un vero e proprio pellegrinaggio dei rifiuti elettronici, un viaggio che termina in terre non preparate ad accoglierli nel modo corretto.
Quando un rifiuto entra nella rete dell’illegalità, molto spesso finisce in paesi che non hanno gli standard adeguati per trattarlo, provocando danni all’ambiente e alle persone ma anche all’economia, data l’incapacità di recuperare per intero il patrimonio nascosto all’interno dell’oggetto elettronico. Il mercato dei paesi in via di sviluppo fa gola perché è concorrenziale: qui rifiuti vengono smaltiti con il costo più basso sul mercato. A volte per far sparire i rifiuti in altri paesi basta indicarli come prodotti di seconda mano. Usciti dall’Europa è poi facile che finiscano in impianti di smaltimento non adeguati. Dal rapporto Europol 2015 “Exploring tomorrows organised crime”, emerge come nel 2017 la quantità di telefoni e PC obsoleti inviati nei paesi in via di sviluppo come apparecchi di seconda mano, supererà i dispositivi presenti negli stati già sviluppati. È difficile stimare i rifiuti che sono usciti dall’Europa con una diversa etichettatura, ma è facile avere la “prova del nove” osservando gli apparecchi elettronici importati in zone in via di sviluppo.
Se l’importazione è alta e altrettanto alto è il volume dei rifiuti, allora significa che gran parte dei materiali provenienti dai paesi ricchi di fatto non erano funzionanti. Sebbene i dati non siano molto recenti, il rapporto “Where are WEEE in Africa” del Basel Convention Secretariat del 2009, lo dimostra bene nel caso del Ghana. Il volume di rifiuti elettronici prodotto in questo stato a partire da prodotti acquistati come nuovi corrisponde solo al 25% del volume totale.

Di fronte a questo uso privo di rispetto dei territori e delle persone che li abitano l’Europa non è rimasta a guardare. Proprio ora (il 25-26 giugno scorso) si è tenuta la conferenza conclusiva del CWITProject, un progetto nato durante il settimo Programma Quadro. Uno studio approfondito dei mercati, soprattutto di quelli illegali, e degli attori coinvolti ha permesso di creare un sistema capace di calcolare la portata del traffico illegale: LibraWEEE è una vera e propria library del crimine legato a e-waste. Ancora una volta trasparenza, tracciabilità e dati potrebbero essere il segreto per una gestione più razionale (e redditizia) dei rifiuti europei.

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Credits immagine: Bdunette

Giulia Annovi

Data-journalist, scrivo di scienza, medicina e tecnologia.

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